Ad oggi non esiste una “democrazia cinese”, almeno non secondo il modello occidentale
(Tempo di lettura
8 minuti - 25.03.2021)
Introduzione
Malgrado i tanti
scambi commerciali e la diffusione di informazioni via internet, sappiamo
ancora poco sui modelli culturali in generale e sulle caratteristiche della
partecipazione politica in Cina.
S’è vero che nel
cercare di comprendere il sistema politico cinese ci portiamo dietro le categorie
ed i concetti appresi nei percorsi di studio che indubbiamente risentono di una
visione parziale ed occidentale, non possiamo certo cadere nella trappola di
accettare per “democratico” ciò che di fatto non lo è.
Non credo sia
sufficiente applicare le etichette di “democrazia” e “stato di diritto” ad una
realtà politica, per trasformarla magicamente in un modello politico più o meno
positivo ed auspicabile, a prescindere dalla presenza e dalla qualità di una
serie di parametri che sono maturati in anni di ricerca da parte degli studiosi
di scienza politica.
Elogiare il
sistema cinese andrebbe bene a patto che si dia una spiegazione del perché lo
si valuta positivamente, altrimenti si tratta di un mero esercizio
propagandistico. Proprio perché non basta parlare di un generico “processo
decisionale democratico” o del “Congresso Nazionale del Popolo”, senza specificare
chi ha il diritto di voto, se le elezioni sono libere, competitive e ricorrenti
e quali sono gli equilibri tra i poteri dello Stato (ammesso che effettivamente
ce ne sia più di uno) non credo che si possa in alcun modo parlare di una
democrazia cinese.
Finché non saranno date spiegazioni dettagliate sulle peculiarità e sulle presunte virtù della “democrazia popolare cinese”, credo che sia, non solo legittimo ma anche doveroso, avvalerci di quelle caratteristiche che solitamente usiamo per valutare la qualità di un sistema politico e che fanno riferimento al sistema dei partiti, ai diritti civili, politici, ed economico – sociali, alla libertà di espressione, ai diritti umani, al sistema informativo e così via.
D’altra parte, credete
davvero che sia da considerare un grande traguardo di democrazia il fatto che
in Cina, un paese che conta più di un miliardo di persone, siano stati attivati
degli “uffici di sensibilizzazione legislativa locale” con cui sono state
raccolte le opinioni di un migliaio di persone per l’adozione di atti
normativi?
Per quanto si
possa obiettare il fatto che si tratta di una fonte che appartiene al “mondo
occidentale” sembra particolarmente rilevante che, per il 2020 il gruppo di
ricerca del settimanale inglese The Economist ha attribuito alla Cina la
definizione di “regime autoritario” e la posizione numero 151 (su un totale di
167 paesi) nel Democracy Index, in base ad una serie di criteri tra cui figura
l’assenza di pluralismo politico.
Per quanto mi
riguarda, le valutazioni sono aperte e soggette a variazioni e, non avendo in
alcun modo la pretesa di analizzare in maniera esaustiva il sistema cinese, mi
limiterò qui di seguito a riportare alcuni degli aspetti di tale realtà che sono in aperto contrasto con l’idea di democrazia
come comunemente intesa in Occidente.
La centralità del Partito Comunista Cinese
Il Partito
Comunista Cinese, a partire dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese
da parte di Mao Zedong nel 1949, è a tutti gli effetti il soggetto determinante
dell’intera vita politica del Paese. In sostanza si tratta dell’unico partito a
cui spetta, mediante una struttura monolitica e piramidale, ogni decisione in
tema di governo, amministrazione, economia, mezzi di comunicazione, giustizia,
difesa e ordine pubblico.
Al vertice della
piramide si trova la figura del Segretario Generale del PCC che coincide con la
carica di Presidente della Repubblica Popolare Cinese e non è eletta dal popolo.
Anche se nel 1992 venne imposto un limite di due mandati per il ruolo del
Segretario Generale del PCC ed è stata ammessa la costituzione di altri partiti
(con la sola funzione di “cooperazione” e non di “opposizione” al PCC) è
evidente che questa architettura istituzionale è più congeniale ad un sistema
totalitario che ad una democrazia: la più alta carica del PCC, che di fatto
monopolizza il potere, si sovrappone alla più alta carica dello Stato che è
appunto quella di Presidente della Repubblica Popolare Cinese.
Questa identità
tra la più alta carica dello Stato e quella del PCC connota in senso negativo
l’assetto istituzionale della Cina ed è aggravata dal fatto che nel 2018
l’Assemblea del Popolo (organo legislativo eletto con un sistema piramidale in
cui solo l’ultimo livello, quello locale, è eletto direttamente dal popolo) ha
abolito i limiti di durata della carica presidenziale e questo significa che Xi
Jinping, l’attuale Presidente, può rimanere al potere a tempo indeterminato.
Il Presidente Xi Jinping
è anche capo delle forze armate, controlla in modo ferreo il PCC (che conta circa
novanta milioni di persone) ed è stato innalzato al livello di leader storico
nel 2017 quando è stato riconosciuto tra le figure carismatiche della nazione
come Mao Zedong e Deng Xiaoping. Si tratta di un caso evidente di un solo
uomo al potere, peraltro uno degli uomini più potenti al mondo.
Sotto alla carica
di Segretario del PCC, il rigido controllo sul potere scende lungo una scala
gerarchica in cui si susseguono: il Comitato Permanente del Politburo,
l’Ufficio Politico del PCC, il Comitato Centrale e il Congresso Nazionale del
PCC. Nel modello cinese il PCC decide, l’amministrazione esegue e la polizia
vigila e, anche se esiste una pluralità di organismi istituzionali, il potere
non è diviso ma è fortemente accentrato nei vertici del partito.
Negli ultimi anni
è cresciuta la consapevolezza in seno al PCC che il dominio di quest’ultimo è
minacciato dalla diffusione dei valori che caratterizzano le democrazie
occidentali, quali la cultura dei diritti umani, e non si è fatta attendere la
risposta di Xi Jinping mediante politiche restrittive sui mezzi di
informazione, sui gruppi religiosi e sugli attivisti per i diritti umani.
Controllo
sociale, repressione e gravi violazioni dei diritti umani
Nelle ultime due
decadi il mondo ha assistito all’ascesa economica della Cina che si è
guadagnata un posto tra le prime potenze mondiali. Alla posizione di potenza
internazionale si accompagna la volontà di Pechino di proporre ad altre nazioni
forme di cooperazione alternative a quelle occidentali come dimostrano i piani
di investimenti del gigante asiatico in Africa o la Belt and Road Initiative (BRI)
per il collegamento dell’Asia con l’Europa e l’Africa Orientale.
E’ in questo
quadro, sommariamente delineato, che s’innesta la volontà delle autorità cinesi
di proiettare, ovunque possibile, una immagine positiva del regime e della sua
forma di governo. Tale modello autoritario si regge non solo con la forza della
repressione ma anche con il controllo della formazione e soprattutto
dell’informazione che va a compromettere irrimediabilmente sia la capacità di
critica dei cittadini cinesi nei confronti del potere, che la loro libertà di
immaginare una realtà diversa da quella propinata dal Partito Comunista Cinese
(PCC).
Negli ultimi anni
il PCC è sempre più determinato a rafforzare il controllo su internet
limitando, ad esempio, i contenuti fruibili da parte degli utenti cinesi ma
anche tessendo una fitta rete di interessi a livello globale attraverso marchi
ad esso collegati come Huawei, TikTok e WeChat. Inoltre, questo “autoritarismo
digitale cinese” si estende anche alla sorveglianza dei cittadini attraverso
milioni di telecamere, tecnologie di riconoscimento facciale, intelligenza
artificiale ed estesissimi database biometrici.
La assenza di
pluralismo nella vita politica cinese dove il Partito Comunista Cinese non è un
veicolo del potere ma è il potere stesso, è integrata e mantenuta attraverso la
repressione. Si pensi al clamoroso caso dello scrittore cinese dissidente Liu
Xiabo (vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 2010) che fu condannato a
undici anni di prigione in Cina per “propaganda controrivoluzionaria ed
incitamento alla sovversione contro lo Stato”.
In Cina la dura
repressione colpisce molti cittadini ed in particolare coloro che si occupano
di diritti umani. E’ il caso del blogger e attivista Wu Gan che, colpevole di opporsi
al regime, è stato sanzionato con 8 anni di reclusione per attività sovversiva
nell’ambito di una ondata di repressione partita nel 2015 e nota come “campagna
709” per mettere a tacere le voci dissidenti.
La repressione riguarda anche le autonomie come Hong Kong e le minoranze etnico – religiose come quella del Tibet o dello Xinjiang. In Tibet il Presidente Xi Jinping è determinato a completare il processo di “cinesizzazione” aumentando i controlli capillari e la repressione nell’ottica di realizzare l’uniformità etnica e culturale: nel 2016 bel 17.000 monaci sono stati sfrattati dai centri di culto.
In più di mezzo
secolo di dominio assoluto, i soprusi del PCC sulla popolazione sono davvero
tanti ed è difficile cogliere le numerose sfaccettature di una realtà
autoritaria che non si contraddistingue per trasparenza ed accessibilità agli
occhi di chi la osserva.
In chiusura di
questa analisi voglio accennare anche ad uno degli aspetti più impressionanti
che spiega, almeno parzialmente, le basi dello sviluppo economico e
l’oppressione del sistema comunista cinese. Si tratta dei Laogai, dei veri e
propri campi di concentramento legati al sistema penitenziario ed istituiti in
Cina negli anni cinquanta del novecento per volontà del “Grande Timoniere” Mao
Zedong.
I Laogai sono
stati modellati a somiglianza dei Gulag sovietici e sono attivi ancora oggi a
centinaia nel territorio cinese. In questi campi di concentramento, in cui è
diffusa la tortura e l’indottrinamento politico, lavorano coattivamente milioni
di persone in pessime condizioni, fino a sedici ore al giorno, in favore del
governo cinese e di imprese multinazionali che sfruttano una forza lavoro
praticamente gratuita.
Visto il peso internazionale e l’influenza politico – economica della Repubblica Popolare Cinese a livello globale, ci saranno sempre più occasioni per approfondire le istituzioni politiche e sociali vigenti in quel paese che molto probabilmente saranno esportate in altre nazioni dal gigante asiatico la cui influenza è in espansione. Ci saranno inoltre altre occasioni per approfondire le caratteristiche di un sistema che attualmente appare davvero molto lontano dalla democrazia come comunemente definita in Occidente.
Le fonti
consultate:
Edwards L., Is China Totalitarian?
Bianchi L, il nuovo dittatore cinese, Xi Jinping
Eleanor A. – B. Xu
- L. Maizland, The Chinese Communist Party
Mangano A., Cina: Istruzioni per una Dittatura perfetta
Sicurezza Internazionale, Attivista per i diritti umani: la Cina è una dittatura
Bellotto A., La fortezza inespugnabile. Tra Hong Kong e Xinjiang ci siamo dimenticati della repressione cinese in Tibet
Chinappi G., Democrazia con caratteristichecinesi
Mastrodonato L., Gli Usa saranno una democrazia in crisi, ma la Cina non è il nuovo modello di riferimento
El mundo, China, una potencia economica sin democracia
Bell D. A.,
Chinese Democracy Isn't Inevitable
Acevedo
J. C. P., ¿Existe democracia en China?
Arcipelago
Laogai, Cosa sono i Laogai?
Lo
Spiegone, La piramide del potere comunista: com’è strutturato il Partito Comunista Cinese?
Somma
E., Autoritarismo digitale, così il “modello Cina” sta conquistando anche l’Occidente
Wikipedia,
Democracy Index